Se il tatuare in Occidente può essere, per alcuni, solo un mestiere, in Giappone – lo horimono (“cose incise”) – il tatuaggio tradizionale è una vera e propria forma d’arte che richiede una profonda conoscenza del Giappone e del suo folclore.
Ogni horimono racconta un aspetto della cultura giapponese, è un veicolo della storia e dei racconti folclorici di questo Paese, la riproduzione di un certo fiore, infatti, si armonizza con un determinato soggetto iconografico e non con un altro. Tutte le immagini raffigurate nel tatuaggio rimandano ad un preciso significato che fa parte della cultura giapponese e che si ritrova in tutte le arti grafiche e le forme artistiche nipponiche. L’attenzione per i dettagli e le tradizioni sono punti centrali che non possono essere considerati irrilevanti.
Per questo motivo il maestro tatuatore è prima di tutto uno studioso, un grande conoscitore della cultura giapponese che non smetterà mai di studiare e di approfondire: un sapere che poi tramanderà al proprio allievo.
Seguendo l’antica maniera tradizionale giapponese l’allievo andrà a vivere a casa del maestro. Non limitando lo studio a poche ore al giorno, egli avrà l’onore di entrare a far parte della famiglia, di condividere tutti gli aspetti della vita del maestro come fosse un figlio. In questo modo la lezione che apprenderà sarà di gran lunga più ampia: coglierà il vero spirito del tatuaggio giapponese che non si riduce solo ad una mera questione di tecnica. Anzi, imparare la tecnica è una cosa che si apprenderà dopo, con il tempo, e non perché sia una cosa secondaria o semplice, ma solo perché si dovrà essere pronti prima nello spirito.
Molti tatuatori giapponesi usano anche la macchinetta elettrica ma il tatuaggio tradizionale, lo horimono, è eseguito con la tecnica a mano: il tebori. Fasci di aghi sono inseriti in una bacchetta, una volta di legno, oggi quasi sempre in metallo. Questi hari vengono posti obliquamente rispetto alla pelle e inseriti per uno spessore di pochi millimetri. Tra i vari metodi, il tebori è il più complicato, il più controllato e uno dei più dolorosi: sono necessarie grande abilità, precisione e ritmo costante.
Anche chiamato irezumi (“inserire inchiostro”), il tatuaggio giapponese ha avuto però, nel tempo, valenze molto diverse. Affonda le radici nel periodo preistorico, legato a culti agrari o come segno distintivo di nobiltà o di coraggio. Divenne poi, in epoche successive, marchiatura dei criminali, dei fuori casta e di coloro che, come il becchino o l’esecutore di pene, avevano a che fare con la morte e dunque considerati contaminati.
Nel periodo Tokugawa (1603-1867), anche per reazione alle rigide regole imposte dalla classe dominante, divenne una delle manifestazioni artistiche tra le più raffinate e in voga. Grazie all’opera di maestri quali Hokusai (1760-1849), Kuniyoshi (1798-1861) e Yoshitoshi (1839-1892), lo horimono divenne fenomeno sociale e si diffuse soprattutto come immagine di rinascita delle classi medie di cui anche la letteratura e il teatro kabuki si facevano portavoce. Si sviluppò infatti, parallelamente all’arte dell’ukiyoe (xilografia), dalla quale prese in prestito tecniche, disegni e artisti. Furono proprio gli incisori ukiyoe, abili nel riportare nella durezza del legno la fluidità del disegno, che sostituendo il legno con la pelle umana, divennero i primi maestri tatuatori.
Non considerato dalla classe dominante una vera forma d’arte, lo horimono venne dichiarato fuorilegge tanto che gli studi dei tatuatori e tutti i disegni furono più volte distrutti. Fu costretto negli ambienti sotterranei dell’illegalità dove divenne emblema dei giocatori d’azzardo e della yakuza (mafia giapponese) esprimendo ideali di forza, mascolinità, coraggio e lealtà. Per lunghissimo tempo rimase quindi arte nel buio e fu solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che il tatuaggio giapponese, non più perseguitato dalla legge, poté finalmente uscire allo scoperto. Contrariamente a quanto verrebbe da pensare però, questo non significa che esso sia diventato legale: in realtà lo horimono oggi è solo più tollerato dalle autorità.
Purtroppo l’antico legame con l’illegalità ancora oggi influenza quest’arte tanto che nei luoghi pubblici sono frequenti i cartelli di divieto di entrata alle persone tatuate in maniera tradizionale i quali sono costretti a coprirsi con maglie a maniche lunghe e pantaloni lunghi anche d’estate.
In effetti il tatuaggio tradizionale giapponese, diversamente da quello in stile occidentale, si estende in tutto il corpo o quasi, riporta un unico tema che si sviluppa sulla schiena, le spalle, le braccia, le gambe, seguendo con attenzione le curve anatomiche e calcolando con cura l’effetto estetico finale quando si muoveranno i muscoli. Molto simile ad una scultura piuttosto che ad una pittura, è un tatuaggio che è bello osservare da una certa distanza per meglio coglierne l’interezza e poter ammirare l’effetto delle parti di pelle senza tatuaggio che esaltano le parti tatuate. È come il dualismo di due forze antitetiche, lo yin e lo yang dove gli opposti restituiscono una cosa in più: l’armonia, la completezza.
Oggi i giovani tatuatori attingono ad una gamma più vasta di colori, molto più luminosi, ma quando si osservano i vecchi tatuaggi tradizionali sembra di guardarli attraverso la carta di riso: le tinte smorzate, lo sfondo scuro. Come quando i raggi del sole filtrano attraverso la carta opalescente dello shoji ed emanano una luce mitigata e indiretta, lo horimono sembra composto da uno strato di ombra riflettendo un gusto tutto giapponese per i colori sobri e le sfumature del crepuscolo. Sembra ricalcare quella celebrazione dell’ombra di cui scrisse meravigliosamente Tanizaki Jun’ichirō in Libro d’ombra nel 1933.
A parte questo, e la differenza di stile di ogni maestro, la tecnica, il repertorio di immagini, la varietà dei soggetti, il vocabolario figurativo sono rimasti pressoché uguali. Già verso la metà del XIX secolo la tecnica e l’iconografia dello horimono erano ormai definite e rimasero quasi del tutto invariate fino ai giorni nostri. Basti pensare che gli stessi disegni del periodo Tokugawa adornano ancora oggi le schiene e il corpo di tanti appassionati. L’iconografia comprende motivi floreali e zoomorfi, temi buddisti, figure storiche, eroi tratti dal folclore: gli stessi animali che adornano le sete dei kimono, o che sono raffigurati e scolpiti nei templi, i personaggi delle stampe ukiyoe, le figure dei pannelli scorrevoli e degli inchiostri su carta.
In ogni horimono però c’è sempre una piccola parte, una decorazione, lasciata volutamente non riempita: secondo una concezione specificatamente orientale, la bellezza sta in tutto ciò che non è perfetto, perché è solo nell’incompletezza, che lascia spazio all’immaginazione, che si ha la vera espressione artistica.